PIANTE OFFICINALI: Lo status della cannabis dopo le sentenze del TAR Lazio, V sez., nn. 2613 e 2616 del 14.02.2023
I. La riforma del D.Lgs. n. 70/2018 “Testo Unico officinali”
Le piante officinali rappresentano una coltura ed una cultura estremamente radicata nel nostro Paese. Con termine “piante officinali”, infatti, si richiama la “officina” o “opificina”, con il significato di “laboratorio”, dove le piante venivano sottoposte alle varie lavorazioni (ad esempio: essiccazione, triturazione, macerazione, distillazione, estrazione dei principi attivi, ecc.) in modo da renderle utilizzabili ai diversi scopi. Da ciò deriva l’abbinamento “piante officinali” per indicare quelle piante che possono essere lavorate all’interno di un laboratorio.
Sotto un profilo agronomico, le piante officinali sono un insieme di specie vegetali molto eterogenee quali le piante medicinali, aromatiche e da profumo ma anche alghe, funghi e licheni.
Il settore delle piante officinali da molto tempo chiedeva a gran voce una riforma radicale che fosse in linea con l’avanzamento delle tecnologie e dei mercati di riferimento delle piante officinali in cui gli operatori erano costretti a rapportarsi con la vetusta Legge n. 99 del 1931 fondata su un modello ormai obsoleto e che individuava la figura dell’erborista come unico soggetto che poteva raccogliere e produrre tali piante.
Tale impostazione non teneva conto della profonda evoluzione del settore e del mercato agricolo comunitario che negli ultimi decenni aveva assistito ad una profonda innovazione sia delle strutture agricole che dei macchinari, ma anche sotto il profilo della tutela dell’ambiente e della biodiversità e del risparmio energetico.
Tali esigenze si sono concretizzate nell’atteso “Testo Unico in materia di coltivazione, raccolta e prima trasformazione delle piante officinali” adottato con il D.Lgs. n. 75/2018 (d’ora in poi “T.U. Officinali”).
Il D.lgs. n. 75/2018 innova profondamente la materia consentendo all’agricoltore la coltivazione, raccolta e prima trasformazione delle piante officinali.
Esso, all’art. 1, c. 2, definisce le piante officinali come “le piante cosiddette medicinali, aromatiche e da profumo, nonché le alghe, i funghi macroscopici e i licheni destinati ai medesimi usi” nonché quelle “specie vegetali che in considerazione delle loro proprietà e delle loro caratteristiche funzionali possono essere impiegate, anche in seguito a trasformazione, nelle categorie di prodotti per le quali ciò è consentito dalla normativa di settore, previa verifica del rispetto dei requisiti di conformità richiesti”
In sostanza il T.U. definisce le piante officinali sia in base all’appartenenza ed alle caratteristiche botaniche e funzionali sia con riferimento alla destinazione d’uso individuando, in sostanza, tre settori di applicazione: medicinali, aromatiche e da profumo con le cui normative di settore il D.Lgs. n. 75/2018 dovrà interagire e si dovrà coordinare.
Un successivo decreto interministeriale (il Decreto Interministeriale del 22.01.2022) avrebbe poi definito l’elenco delle piante officinali.
In tale prospettiva l’agricoltore può, senza necessità di alcuna autorizzazione preventiva, coltivare, raccogliere e procedere alla prima trasformazione delle piante officinali, ossia porre in essere le attività descritte dal comma 4 dell’art. 1:
“Il risultato dell’attività di coltivazione o di raccolta delle singole specie di piante officinali può essere impiegato direttamente, oppure essere sottoposto a operazioni di prima trasformazione indispensabili alle esigenze produttive, consistenti nelle attività di lavaggio, defoliazione, cernita, assortimento, mondatura, essiccazione, taglio e selezione, polverizzazione delle erbe secche e ottenimento di olii essenziali da piante fresche direttamente in azienda agricola, nel caso in cui quest’ultima attività necessiti di essere effettuata con piante e parti di piante fresche appena raccolte. È altresì inclusa nella fase di prima trasformazione indispensabile alle esigenze produttive qualsiasi attività volta a stabilizzare e conservare il prodotto destinato alle fasi successive della filiera”.
L’agricoltore, ai sensi dell’art. 2, comma 2 deve curare la coltivazione e la raccolta delle piante officinali a scopo medicinali o per la produzione di sostanze attive “senza necessità di specifica autorizzazione” in conformità con le GACP di cui all’Allegato 7, punto 7 delle GMP dell’Unione Europea.
In ogni caso sono escluse dall’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 75/2018 la coltivazione e lavorazione delle piante officinali disciplinate dal DPR 309/1990 in materia di stupefacenti.
Il T.U. esclude invece esclude all’agricoltore “la vendita al consumatore finale e le attività successive alla prima trasformazione che rimangono disciplinate dalle specifiche normative di settore” così come “le preparazioni estemporanee ad uso alimentare, conformi alla legislazione alimentare, che sono destinate al singolo cliente, vendute sfuse e non preconfezionate, e costituite da piante tal quali, da sole o in miscela, estratti secchi o liquidi di piante”.
Tali preparazioni sono infatti riservate, oltre ai farmacisti, a coloro che sono in possesso del titolo di erborista conseguito ai sensi della normativa vigente.
Stante quanto sopra, il T.U. officinali ha profondamente innovato la materia consentendo, da un lato, all’agricoltore di coltivare, raccogliere ed effettuare la prima trasformazione (sino alla preparazione di oli essenziali) delle piante officinali senza una specifica autorizzazione preventiva e, dall’altro, riservando al farmacista ed all’erborista le fasi successive della filiera inerente le preparazioni officinali e la vendita al consumatore finale.
L’unica esclusione di operatività del D.Lgs. n. 70/2018 sono le sostanze stupefacenti di cui al DPR 309/1990.
Ad un successivo decreto interministeriale era invece attribuito il compito di stilare un elenco completo ed aggiornato delle varie piante officinali. Ed è proprio qui che nascono le problematiche per quanto in commento.
II. Il Decreto Interministeriale del 22.01.2022 recante “Elenco delle specie di piante officinali coltivate nonché criteri di raccolta e prima trasformazione delle specie di piante officinali spontanee”
Dopo un lungo lavoro da parte del Tavolo Tecnico istituito dal T.U. officinali, nel mese di gennaio 2022 la Conferenza Stato-Regioni aveva raggiunto l’intesa sullo schema di decreto che, sin da subito, aveva suscitato le proteste del settore della canapa industriale.
Tale Decreto, infatti, all’art. 1, c. 4, prevedeva una previsione ad hoc per la cannabis sativa L. (ossia la canapa proveniente da varietà certificate iscritte nel Catalogo delle varietà delle specie delle piante agricole con basso tenore di THC disciplinata dalla L. n. 242/2016) secondo cui:
“la coltura della cannabis sativa L. delle varietà ammesse per la produzione di semi e derivati dei semi è condotta ai sensi della legge 2 dicembre 2016, n. 242, recante disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa. La coltivazione delle piante di cannabis ai fini della produzione di foglie e infiorescenze o di sostanze attive a uso medicinale è disciplinata da decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, che ne vieta la coltivazione senza la prescritta autorizzazione da parte del Ministero della salute”.
Tale disposizione si traduceva nell’elenco delle piante officinali nell’inserimento di un “doppio asterisco” alla canapa sativa che, di fatto, limitava l’uso della pianta di cannabis sativa ai soli semi e derivati con esclusione delle altre parti della pianta.
Per comprendere meglio la questione della canapa è necessario riassumere brevemente il quadro normativo e le interpretazioni fornite dalla giurisprudenza europea e nazionale.
III. Il quadro normativo della canapa sativa L.
A livello internazionale la Single Convention on Narcotic Drugs del 1961 (cd. Convenzione di New York, d’ora in poi “SC”) stabilisce che con “il termine “cannabis” si intende fare riferimento alle sommità fiorite o fruttifere della pianta di cannabis (esclusi i semi e le foglie che non siano uniti agli apici) da cui non è stata estratta la resina, qualunque sia la loro applicazione” (art. 1, lett. b); in tale ipotesi, i semi, le foglie e le infiorescenze (da cui, appunto, non è stata estratta la resina) non contengono una quantità rilevante del principio psicoattivo e, pertanto, sono inidonee ad essere qualificate come stupefacenti (c.d. cannabis per usi industriali).
Con “il termine “stupefacente” si intende fare riferimento a qualsiasi sostanza, sia essa naturale che sintetica, diversa da quelle di cui sopra, che, per via del suo effetto psicoattivo, non può essere coltivata, prodotta, commercializzata, se non limitatamente per l’impiego in ambito medico e scientifico, previa licenza. (art. 1, lett. j)
Ebbene, la Convenzione di New York ha istituito un sistema di controllo internazionale delle sole sostanze stupefacenti, vietandone la detenzione, l’uso, il commercio, la distribuzione, l’importazione, l’esportazione, la fabbricazione e la produzione se non per fini esclusivamente medici e scientifici (stante il relativo valore terapeutico), e previa apposita licenza. Quanto alla cannabis per usi industriali, invece, la Convenzione non pone alcun limite al suo impiego.
A livello comunitario il TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) include la canapa sativa L.tra i prodotti agricoli di cui all’allegato I.
Il Reg. (CE) n. 1307/2013
Il Reg. (CE) n. 1308/2013 istituisce poi una specifica organizzazione comune del mercato della canapa e del lino.
Il Reg. di esecuzione n. 220/2015 include infine la canapa tra le “piante industriali”.
In ogni caso a livello europeo non sussiste alcuna distinzione tra le parti della pianta di canapa sativa.
Per avere un quadro ancora più esauriente anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (d’ora in poi “CJE”) ha avuto modo di pronunciarsi sulla materie con due fondamentali sentenze fondamentali:
a) caso “Hammerstein”
b) “caso Kanavape”
A livello nazionale la materia è disciplinata, da un lato dal DPR 309/1990 (cd. T.U. Stupefacenti) e, dall’altro, dalla L. n. 242/2016.
– Il DPR 309/1990, analogamente agli obiettivi cui è ispirata la Convenzione di New York, di prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza, si occupa della classificazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope e della relativa regolamentazione, prevedendo apposite sanzioni amministrative in caso di inosservanza delle prescrizioni ivi contenute.
Quanto alla classificazione di dette sostanze, il dPR 309/1990 le suddivide, raggruppandole, in cinque tabelle. In particolare, per quanto di interesse in questa sede, la Tabella II qualifica come stupefacenti: (i) Cannabis (foglie e infiorescenze); (ii) Cannabis (olio); Cannabis (resina).
Quanto alla relativa regolamentazione, l’art. 17 del TU Stupefacenti dispone che “chiunque intenda coltivare, produrre, fabbricare, impiegare importare, esportare, ricevere per transito, commerciare a qualsiasi titolo o comunque detenere per il commercio sostanze stupefacenti o psicotrope, comprese nelle tabelle […] deve munirsi dell’autorizzazione del Ministero della sanità” fermo restando che il loro impiego deve considerarsi limitato ad uso medico, per quei medicinali che sono composti da sostanze attive stupefacenti, e per finalità terapeutiche ad uso umano o veterinario”.
Conseguentemente lo svolgimento delle predette attività in assenza della preventiva autorizzazione ministeriale costituisce condotta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 73 del dPR 309/1990 e, come tale, sanzionabile.
È doveroso rimarcare come, fermo quanto previsto dall’art. 17 menzionato, gli artt. 26 e 27 del TU Stupefacenti individuano comunque degli spazi entro i quali è consentita la coltivazione della canapa senza necessità di ottenere previamente l’autorizzazione del Ministero e senza incorrere, pertanto, nella comminazione di sanzioni penali:
– l’art. 26 dispone, infatti, che “è vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all’articolo 14, ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all’articolo 27, consentiti dalla normativa dell’Unione europea”;
– l’art. 27 del TU Stupefacenti, a sua volta, stabilisce che l’autorizzazione ministeriale “è valida oltre che per la coltivazione, anche per la raccolta, la detenzione e la vendita dei prodotti ottenuti, da effettuarsi esclusivamente alle ditte titolari di autorizzazione per la fabbricazione e l’impiego di sostanze stupefacenti”.
In base alla normativa richiamata, dunque, l’autorizzazione deve essere richiesta al Ministero della Salute nei soli casi in cui la coltivazione sia finalizzata al successivo utilizzo della pianta di cannabis in ambito medico, ovvero in ambito farmaceutico (e, dunque, come stupefacente), mentre non è necessaria per la coltivazione finalizzata alla produzione di fibre o per altri usi industriali (diversi, appunto, da quello medico/farmaceutico) consentiti dalla normativa europea.
– La legge n. 242/2016 invece è una legge di “filiera” volta al sostegno ed alla promozione ella filiera agro-industriale della canapa, che ne ha liberalizzato la coltivazione delle varietà certificate (per le quali non si applica il DPR 309/1990) e la trasformazione finalizzata alle destinazioni tassativamente elencate dall’art. 2, c.2, diversi da quelli di cui al dPR 309/1990 per i quali continua ad essere richiesta l’autorizzazione del Ministero della Salute ossia:
1) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
2) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
3) materiale destinato alla pratica del sovescio;
4) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
5) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
6) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché’ di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
7) coltivazioni destinate al florovivaismo.
La L. n. 242/2016 è in sostanza una legge-quadro che definisce il perimetro della materia canapa industriale sottratto all’ambito dell’applicazione della normativa sugli stupefacenti in ossequio alla distinzione che trae origine dalla SC tra cannabis-stupefacente (lecita solo per fini medico-scientifici e per la quale è necessaria l’autorizzazione del Ministero per la coltivazione e trasformazione) e canapa industriale (prodotto agricolo non soggetta alla normativa sugli stupefacenti).
Tale distinzione è confermata anche dal recente documento redatto dall’UNCTAD Commodities at a glance. Special issue on industrial hemp, ONU, 2022 ove a più riprese si manifesta l’esigenza del cd. whole plant approach ossia della liceità dell’uso dell’intera pianta di canapa per le applicazioni industriali.
IV. Rapporti ed analogie tra L. n. 242/2016 e D.lgs 75/2018
Dall’analisi che precede, emergono varie analogie tra l’impianto del D.Lgs. n. 75/2018 e la L. n. 242/2016, le quali denotano un minimo comun denominatore quanto alla ratio ed ai principi sottesi, si possono così riassumere:
a) Entrambe sono leggi quadro che delineano, in via generale, il perimetro e l’ambito della materia specifica disciplinata (le piante officinali il D.lgs e la canapa industriale la Legge 242);
b) Entrambe sono leggi primarie di stretta derivazione comunitaria come si evince dai presupposti e dai richiami contenuti;
c) Entrambe le leggi sono leggi agricole rivolte all’agricoltore (o meglio all’imprenditore agricole di cui all’art. 2051 c.c.) che può legittimamente coltivare, raccogliere e svolgere la prima trasformazione delle piante officinali, tra cui la canapa;
d) Entrambi esulano dall’ambito applicativo del DPR 309/1990 sugli stupefacenti;
e) Entrambe escludono autorizzazioni preventive per l’agricoltore
f) Entrambe devono coordinarsi e raccordarsi con le specifiche normative di settore per le destinazioni d’uso cui è possibile, per legge, impiegare le piante officinali e la canapa;
g) Entrambe – come vedremo infra – incappano nel medesimo errore interpretativo con riferimento ad una pianta specifica: la cannabis sativa (!).
V. Il ricorso al TAR
Sulla base di quanto sopra le associazioni di categoria del settore canapa industriale hanno impugnato il Decreto Interministeriale al fine di sottoporre al TAR Lazio gli evidenti contrasti del medesimo con la normativa internazionale e comunitaria ove non sussiste alcuna distinzione tra le varie parti della pianta di cannabis sativa L. al fine di ottenere l’annullamento in parte qua dell’art. 1, c. 4 secondo cui:
“La coltura della cannabis sativa L. delle varietà ammesse per la produzione di semi e derivati dei semi è condotta ai sensi della legge 2 dicembre 2016, n. 242, recante disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa. La coltivazione delle piante di cannabis ai fini della produzione di foglie e infiorescenze o di sostanze attive a uso medicinale è disciplinata da decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, che ne vieta la coltivazione senza la prescritta autorizzazione da parte del Ministero della salute”.
VI. Le sentenze n. 2613 e n. 2616/2023 della V sezione del TAR Lazio
Il TAR Lazio ha operato una ricostruzione del complesso quadro normativo di riferimento, sulla base di quanto delineato nel ricorso (e come riportato sopra) rilevando come “Dall’esame di tali norme, però, non è dato evincere alcuna distinzione tra le parti della pianta di canapa liberamente coltivate, ai sensi della legge citata n. 242/2016, che possono essere utilizzate per le finalità stabilite dalla legge medesima. La disciplina di settore di matrice internazionale e comunitaria chiarisce, infatti, che il criterio discretivo per stabilire la libera coltivazione della canapa risiede nella tipologia di pianta, considerata nella sua interezza”.
In buona sostanza la distinzione tra cannabis-stupefacente, disciplinata dal DPR 309/1990 e canapa-industriale disciplinata dalla L. n. 242/2016 rientra nella provenienza da varietà certificate iscritte al Catalogo Comune delle specie delle piante agricole che viene aggiornato periodicamente in considerazione del loro basso contenuto di THC naturalmente presente (0,3% dal 1 gennaio 2023).
Il TAR Lazio opera anche una ricostruzione giurisprudenziale richiamando la sentenza della Corte di Giustizia Europea resa nel cd. “caso Kanavape” sopra menzionato e la recente sentenza del Consiglio di Stato francese n. 444887 del 29.12.2022 che ha analizzato a fondo la questione chiarendo che “l’art. 16 della direttiva 2002/53/CE del consiglio del 13 giugno 2002, relativa al catalogo comune delle specie di piante agricole, prevede, al punto 1, che gli Stati membri provvedono affinchè le sementi delle varietà ammesse conformemente alle disposizioni della presente direttiva o ai principi corrispondenti a quelli della presente direttiva non siano soggette ad alcuna restrizione di commercializzazione e precisa, al punto 2, le condizioni alle quali gli Stati membri possono essere autorizzati dalla Commissione europea a vietare l’uso di una varietà o, se vi sono validi motivi per ritenere che essa presenti un rischio in particolare per la salute umana, a prescrivere condizioni per l’uso di prodotti risultanti dalla coltivazione di una varietà elencata nel catalogo comune delle varietà”.
Il Consiglio di Stato francese sottolinea pertanto che la misura restrittiva della commercializzazione debba essere giustificata alla luce dell’obiettivo di sanità pubblica perseguito e risultare proporzionata ai rischi per la salute connessi alle sostanze vietate, i quali, nella fattispecie, dipendono esclusivamente dalle quantità di THC effettivamente ingerite a seconda dei prodotti consumati e dei modelli di consumo, così da concludere che, sulla base dei dati scientifici esistenti, il consumo di fiori e foglie con un tenore di THC inferiore allo 0,3% non crea rischi per la salute pubblica tali da giustificare un generico e assoluto divieto alla loro commercializzazione.
Il TAR Lazio ha ritenuto che “le considerazioni espresse dal massimo organo di giustizia amministrativa francese risultano ugualmente valide per la risoluzione dell’odierna vicenda contenziosa, nella misura in cui, nell’esercizio del potere discrezionale, ciascuno Stato membro è chiamato, in virtù dell’assoggettamento ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, ad applicare – nel quadro della politica agricola di rilievo sovranazionale – il corretto bilanciamento tra l’interesse alla tutela della salute pubblica ed i principi eurounitari di proporzionalità e di precauzione nell’adozione di misure restrittive alla libera circolazione dei prodotti agricoli”.
Da tali principi deriva che le limitazioni alla filiera produttiva agro-industriale della canapa ai soli semi e fibre “risulterebbe in contrasto con gli articoli 34 e 36 del TFUE” per cui “la normativa nazionale può limitare l’utilizzo delle parti della pianta soltanto se tale limitazione sia strettamente indispensabile a tutelare il diritto alla salute pubblica, purchè ciò non ecceda quanto necessario per il suo raggiungimento. In caso contrario la normativa nazionale determinerebbe una indebita restrizione quantitativa, che si porrebbe in aperto contrasto con il principio di libera circolazione delle merci sancito a livello europeo”.
Sulla scorta di quanto sopra, in accoglimento dei motivi del ricorso, il TAR Lazio ha annullato la parte del decreto interministeriale impugnato in parte qua invitando le Amministrazioni a riesaminare il provvedimento adottato tenendo conto delle evidenze scientifiche sottese all’esigenza di tutela della salute nel rispetto dei principi eurounitari di precauzione e proporzionalità.
VII. La situazione attuale
Il recente provvedimento del TAR, unitamente ai precedenti del Conseil d’Etat francese ed alla giurisprudenza comunitaria della CJE, consente oggi di disporre di un quadro assai chiaro inerente alla cannabis sativa quale pianta officinale.
Atteso che la pianta di cannabis sativa L. proveniente da varietà certificate non è, nella sua interezza, una sostanza soggetta al controllo della normativa sugli stupefacenti di cui alla SC ed al DPR 309/1990, appare evidente l’applicabilità alla stessa della disciplina di cui al D.Lgs. n. 75/2018.
Anzi la vicenda giudiziaria che ha interessato il decreto interministeriale impugnato consente di disporre elementi chiari ed incontrovertibili circa l’inserimento dell’intera pianta di cannabis sativa tra le piante officinali.
Ciò comporta che l’intera pianta di cannabis sativa L. potrà essere lecitamente e senza autorizzazione preventiva coltivata, raccolta e sottoposta a prima trasformazione da parte dell’agricoltore, il quale potrà compiere tutte quelle operazioni descritte dall’art. 1, c. 4 del D.Lgs. n. 75/2018.
Nel concreto potrà quindi porre in essere tutte quelle attività di prima trasformazione indispensabili alle esigenze produttive (lavaggio, defoliazione, cernita, assortimento, mondatura, essiccazione, taglio e selezione, polverizzazione delle erbe secche e ottenimento di olii essenziali da piante fresche), nonché qualsiasi attività volta a stabilizzare e conservare il prodotto destinato alle fasi successive della filiera. E tali attività possono essere svolte direttamente presso l’azienda agricola.
Ovviamente l’inclusione della canapa tra le pianti officinali non si traduce in una liberalizzazione senza regole dei prodotti ottenibili in quanto, come sopra esposto, il DLgs. N. 75/2018 così come la L. n. 242/2016 sono “leggi-quadro” che devono raccordarsi con le specifiche normative di settore.
Tanto che è lo stesso T.U officinali a premurarsi di precisare come la vendita al consumatore finale e le attività successive alla prima trasformazione restano disciplinate dalle specifiche normative di settore, così come “le preparazioni estemporanee ad uso alimentare, conformi alla legislazione alimentare, che sono destinate al singolo cliente, vendute sfuse e non preconfezionate, e costituite da piante tal quali, da sole o in miscela, estratti secchi o liquidi di piante”, le quali possono essere eseguite soltanto dal farmacista o dall’erborista in possesso dei necessari requisiti professionali.
Per cui la reale incidenza delle sentenze del TAR è da individuarsi soprattutto in ambito agricolo consentendo all’agricoltore (o meglio all’imprenditore agricolo) di coltivare, raccogliere e lavorare l’intera pianta di canapa sativa. Quanto ai prodotti da essa ottenibili si dovrà comunque fare riferimento alle normative ed ai requisiti ed autorizzazioni previsti dalle normative di settore in ambito alimentare, cosmetico, erboristico ecc.
Ciò che cambia, a parere dello scrivente, è lo status della pianta di cannabis sativa nel suo complesso, la quale assume piena dignità di pianta officinale senza distinzioni tra parti della pianta non soggetta alla disciplina di cui T.U. Stupefacenti che, invecem continuerà ovviamente ad essere applicata alla cannabis proveniente da varietà non certificate e per la destinazione farmaceutica.
In parallelo si aprono interessantissimi scenari per quanto riguarda preparati erboristiche che potrebbero essere realizzati da farmacisti ed erboristi.
Sotto un diverso profilo la suddetta impostazione potrà avere ripercussioni a livello comunitario sulle istanze pendenti in materia di novel food e, a livello nazionale, sull’adozione del piano di settore in discussione presso cui il tavolo di filiera istituito presso il MASAF che non potrà prescindere dal “whole plant approach” stimolato a livello internazionale anche dalla UNCTAD.
E non poteva essere diversamente dati i riferimenti ed i presupposti eurounitari su cui si fondano il D.Lgs. n. 75/2018 e la L. n. 242/2016.
Del resto circa la liceità dell’impiego dell’intera pianta di canapa per uso officinale vi erano state avvisaglie prima nel novembre 2019 con la risoluzione unitaria della XIII Commissione Agricoltura che aveva impegnato il governo a consentire l’utilizzo dell’intera pianta per le destinazioni industriali di legge e poi con il D.M. del 27.07.2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 19.08.2020, con cui il Ministero dell’Agricoltura aveva menzionato la “canapa sativa infiorescenza” destinata ad “usi estrattivi” tra le piante officinali stabilendone altresì il prezzo unitario massimo applicabile per la determinazione dei valori assicurabili al mercato agevolato e per l’adesione ai fondi di mutualizzazione nell’anno 2020.
Tale Decreto, poi successivamente “ritirato” con successivo decreto ministeriale, aveva chiaramente aperto un vulnus nella normativa in quanto appare di tutta evidenza, per basilari ragioni logiche oltre che giuridiche, che un Ministero non possa emanare un decreto con oggetto illecito, addirittura stupefacente!
In realtà la fretta con cui il Decreto era stato ritirato aveva rappresentato l’ennesima testimonianza di come la questione cannabis sativa fosse fondata su un equivoco di fondo inerente la sovrapposizione (indebita) della normativa sugli stupefacenti o meglio su una interpretazione restrittiva della normativa perpetrata e ripetuta come un mantra dal Ministero della Salute secondo cui “fiori, foglie, olio e resine” di cannabis sarebbero sempre stupefacenti a prescindere dal loro uso e dalla loro origine da varietà certificate o meno e addirittura a prescindere dal tenor di THC presenti in quanto menzionate nella tabella II allegata al DPR 309/90.
La questione, come dimostrato e spiegato dalla Corte di Giustizia Europea e dalle sentenze rese dal Consiglio di Stato francese e dal TAR Lazio italiano hanno dimostrato come i rapporti tra normativa stupefacenti e normativa agricola debbano essere valutati su piani diversi atteso che la canapa industriale, stante il bassissimo tenore di THC naturalmente presente, è da qualificarsi come un prodotto agricolo ed una pianta industriale in quanto non idonea ad incidere negativamente sulla salute umana.
Del resto, tornando in tema di piante officinali, occorre rilevare come da un lato le sostanze stupefacenti di cui al DPR 309/1990 sono sicuramente escluse dal novero delle piante officinali e, dall’altro, è la stessa normativa di settore di cui al T.U. officinali che, nelle “note alle premesse” contenute nel medesimo D.Lgs. n. 75/2018, si è preoccupato di dirimere eventuali ipotesi di contrasto tra norme affermando i seguenti principi:
“I decreti legislativi di cui al comma 1 sono adottati sulla base dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) ricognizione e abrogazione espressa delle disposizioni oggetto di abrogazione tacita o implicita, nonché di quelle che siano prive di effettivo contenuto normativo o siano comunque obsolete;
b) organizzazione delle disposizioni per settori omogenei o per materie, secondo il contenuto precettivo di ciascuna di esse, anche al fine di semplificare il linguaggio normativo;
c) coordinamento delle disposizioni, apportando le modifiche necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo;
d) risoluzione di eventuali incongruenze e antinomie tenendo conto dei consolidati orientamenti giurisprudenziali”;
Appare pertanto evidente come lo scopo del Decreto Interministeriale nella versione riformata dal TAR Lazio è proprio quello di superare i dubbi, gli equivoci e le antinomie che da tempo hanno frenato proprio il settore della canapa industriale.
Ne consegue cha la canapa sativa potrà essere coltivata (purchè proveniente da varietà certificate con tenore di THC inferiore allo 0,2%) e trasformata non solo per le finalità elencate dall’art. 2 della L. n. 242/2016 (alimenti, cosmetici, semilavorati, materiale per bioedilizia, bioplastiche, florovivaismo), ma anche quale pianta officinale secondo quanto previsto dall’art. 2, c. 4 del D.Lgs. n. 75/2018:
Pertanto sarà consentita non solo la coltivazione, ma anche la prima lavorazione quale attività di tipo agricolo.