La sentenza n. 7166/2019 della III sezione della Corte di Cassazione: una prudente lettura del settore della canapa industriale in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite.
Soltanto poche settimane fa abbiamo commentato le motivazioni della sentenza n. 4920/2019 della VI sezione penale della Corte di Cassazione che, con una ricostruzione logico-giuridica molto puntuale e lineare, aveva ripercorso le varie criticità del settore della canapa industriale ponendosi su posizioni liberali e libertarie, peraltro sinora sostenute anche dalla giurisprudenza di merito e dalla dottrina.
Sul punto da segnalare come il Tribunale del Riesame di Modena con recente provvedimento del 17.02.2019 ha sancito la libera commercializzazione di canapa industriale riportandosi all’orientamento della VI sezione penale.
Anche la III sezione penale ha avuto modo di confrontarsi con l’argomento con la sentenza n. 7166/2019 depositata in data 15.02.2019.
I giudici della III sezione si sono anch’essi espressi sulla tematica partendo da una ricostruzione della cornice normativa entro cui si inscrive la questione della coltivazione della canapa, giungendo a conclusioni parzialmente diverse da quelle della VI sezione penale.
“Principio cardine”, rileva la Corte, “è la generale previsione d’illecità penale della coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti” a nulla rilevando che sia finalizzata al consumo personale seppure, come già precisato dalle Sezioni Unite, “per l’interazione del fatto occorre che il giudice verifichi in concreto l’offensività della condotta di coltivazione, ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile”.
In questo contesto, in via d’eccezione, è consentita la coltivazione su autorizzazione dell’Ufficio Centrale Stupefacenti (costituito quale Organismo statale per la cannabis ai sensi della cd. Convenzione di New York, ndr) ai sensi degli artt. 17 e 26 DPR n. 309/1990.
In questa cornice si inserisce la L. n. 242/2016 alla quale sono riconosciute anche in questa sede le chiare finalità di incentivare e sostenere la coltivazione della canapa in vista dei suoi molteplici utilizzi in ambito agro-industriale, senza, quindi, interferire con il mercato illecito finalizzato al consumo personale di quella sostanza, la quale contiene THC che, se superiore a un determinato dosaggio, provoca effetti stupefacenti e psicotropi”.
La Corte ripercorre poi la struttura e le previsioni della legge rilevando precisando come la canapa industriale sia soltanto quella proveniente da varietà certificata iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del T.U. Stupefacenti.
In particolare, rileva la Corte, che tali varietà si caratterizzano per basso dosaggio di THC tale da non superare lo 0,2%, limite che trova riscontro nella normativa comunitaria, da un lato, per l’importazione di semi di canapa in UE ai sensi del Reg. UE n. 1308/2013 del Parlamento e del Consiglio del 17.12.2013, dall’altro, requisito per accedere al regime di aiuti della politica agricola comune (in sostanza, come aveva già rilevato la VI sezione, limite previsto per evitare aiuti a colture illecite).
Da ciò discende, secondo l’impostazione della III sezione penale, che si può affermare che la coltivazione di canapa è lecita se congiuntamente rispettati tre requisiti:
- Deve trattarsi di varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle specie delle piante agricole;
- La percentuale di THC presente nella canapa non deve essere superiore allo 0,2%;
- La coltivazione deve essere finalizzata alla realizzazione dei prodotti di elencati nell’art. 2, comma 2, L. n. 242/2016.
Rispettate tali condizioni, “ne deriva che è lecita non solo la coltivazione ma, quale logico corollario, anche la commercializzazione dei prodotti da essa derivati”
Per la Corte, poi, diverse le posizioni di agricoltore (per il quale vale la la soglia di tolleranza “in campo” sino allo 0,6% e, comunque, l’esclusione di responsabilità penale anche in caso di superamento di tale soglia, purchè abbia rispettato gli obblighi di cui all’art. 3) e del commerciante, per il quale, invece, non varrebbe tale tutela.
In sostanza il commerciante “va esente da responsabilità penale ricorrendo le condizioni sopra indicate” potendosi configurare nei suoi confronti l’art. 73 DPR 309/1990 soltanto se la percentuale di THC rinvenuta nei prodotti è tale da provocare un effetto stupefacente o psicotropo, ossia in caso di superamento dello 0,2% di THC.
Importante poi la precisione circa i limiti dell’esercizio dei poteri di polizia circa la possibilità di eseguire al sequestro dei prodotti derivati dalla canapa: esso è ammissibile sotnato se sussiste il fumus del delitto di cui all’art. 73 ossia “quando è accertata una percentuale di THC tale da produrre un effetto stupefacente o psicotropo”
L’indicazione è molto importante in quanto pone un chiaro limite alla possibilità di eseguire sequestri preventivi indistinti di interi magazzini e interi trasporti fondati soltanto sul “sospetto” o sulla somiglianza della canapa industriale a quella illegale, subordinando la misura ablativa reale all’effettivo accertamento del superamento dei limiti di legge.
Al tempo stesso, la III sezione fa salva la “eventuale responsabilità di tipo civile e/o amministrativo” qualora il prodotto a base di canapa non rientri tra quelli contemplati nell’art. 2, comma 2.
Da tali indicazioni discendono alcune considerazioni:
Pur riconoscendo la liceità del commercio la Corte individua la soglia di 0,2% come limite legale, in quanto non esprimerebbe affatto contenuti effettivamente drogante.
Lo scarto fino alla misura dello 0.6% quindi verrebbe circoscritto al solo coltivatore, per evitare al medesimo guai penali in caso di efficacia drogante del prodotto.
Dunque i prodotti con THC sopra 0,2 % sarebbero illegali? E l’agricoltore che ne farebbe del raccolto con valori tra lo 0,2% e lo 0,6%?
La sentenza fornisce in proposito una risposta enigmatica e non chiara, in quanto incentra esclusivamente la propria attenzione in tal caso sull’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante ricavabile, che da tempo, la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione aveva invece fissato nello 0,5%, soglia usualmente usata ai fini delle valutazioni inerenti il DPR 309/90.
Ma anche volendo accettare tale indicazione la Corte non spiega, cosi, perché mai allora il legislatore abbia sancito il limite italiano nello 0,6% e non abbia più semplicemente indicato lo 0,5%, creando, invece, una pluralità di limiti che creano contraddizione.
Dunque una sentenza che se da un lato arieggia i principi generali di liceità del commercio sanciti dalla nota pronunzia 4920/19 della Sesta Sezione Penale, dall’altro mantiene, anche in maniera contraddittoria, una inspiegabile prudenza sulle soglie legali e sulle libertà individuali.
Ciò denota che probabilmente, a differenza della VI sezione, non è stata colta nella sua interezza la reale portata logico-giuridica della questione canapa industriale, ossia che trattasi di un “microsettore normativo autonomo” caratterizzato da un carattere di specialità rispetto al T.U. Stupefacenti dal quale si differenzia in maniera netta dall’assenza di effetto drogante, determinato dalla stessa legge, di fatto, nella soglia dello 0,6%.
Diversamente, come correttamente rilevato dalla VI sezione, si assisterebbe ad una indebita compressione dei diritti costituzionali di libertà individuale e libera iniziativa economica, dal momento che sia l’agricoltore sia il consumatore risulterebbero privati della possibilità di produrre ed acquistare un prodotto assolutamente legale in quanto privo di effetto drogante.
Pertanto se dopo i Tribunali di merito, anche la Corte di Cassazione ha comunque ribadito (sia la III che la Vi sezione) come la L. n. 242/2016 si configuri come una lex specialis rispetto al T.U. Stupefacenti – e non potrebbe essere diversamente anche in virtù della normativa comunitaria ed internazionale – quale ragione sussiste di porre limiti, divieti ed adottare provvedimenti tipici della repressione degli stupefacenti?
Occorre ricordare che la canapa industriale – per definizione comunitaria – è un “prodotto agricolo” ed una “pianta industriale” e come tale deve essere considerata senza alcuna ingerenza o provvedimento mutuato in via analogica dalla normativa anti-droga.
La canapa industriale ed i prodotti da essi ottenuti NON sono una sostanza stupefacente in quanto naturalmente priva di effetti psicotropi poiché proveniente da varietà certificate iscritte nei dovuti registri.
A questo punto resta in sostanza aperta la questione della soglia al di sotto della quale considerare stupefacente la canapa industriale: 0,2% o 0,6%. A parere dello scrivente il settore necessita solamente di conoscere con certezza quale sia il limite da applicare senza doppie soglie o incertezze.
Sul punto quanto mai opportuno un intervento chiarificatore e definitivo da parte delle Sezioni Unite, che, peraltro, sono già state investite della questione dalla IV sezione penale.
Tralasciando tali considerazioni sul THC, occorre comunque rilevare come anche questa sentenza indichi con chiarezza la piena liceità delle finalità e delle attività sostenute e promosse dagli artt. 1 e 2 della L. n. 242/2016, ossia di tutte quelle attività di trasformazione della canapa industriale che hanno ad oggetto, in particolare, la produzione di cannabinoidi non psicoattivi (CBD, CBG, CBN ecc.) che stanno rappresentando la parte più rilevante ed interessante del mercato e che devono ulteriormente tutelati ed incentivati in conformità con le recentissime raccomandazioni della OMS che ci auguriamo possano trovare quanto prima recepimento nel nostro ordinamento rispetto del principio di legalità così da contribuire a quella certezza del diritto indispensabile per garantire la crescita e lo sviluppo del settore.