La legge n. 242/2016: Punti fermi e “zone grigie”. Alcune riflessioni.
Dopo poco più di anno dall’entrata in vigore della L. n. 242/2016 appare opportuno fare alcuni riflessioni sulle luci ed ombre del dettato legislativo.
Se da un lato la legge ha dettato alcuni punti fermi sulla materia – primo fra tutti quello di dotare il settore della canapa industriale di una fonte di rango primario dell’ordinamento elevando così la materia dalla disciplina dettata da mere circolari ministeriali – dall’altro, ha lasciato aperte cosiddette alcune tematiche che hanno dimostrato essere probabilmente le più interessanti per il mondo imprenditoriale.
- Premessa
Il merito principale della legge n. 242/2016 è indubbiamente quello di aver disciplinato il settore della canapa industriale con una legge nazionale, anche se, per molti aspetti, la materia risultava già disciplinata a livello comunitario ed internazionale quantomeno con riferimento al “tradizionale” impiego destinato a fibra o seme.
Entrando maggiormente nel dettaglio, la legge n. 242/2016 ha chiarito definitivamente cosa s’intenda per canapa industriale ossia la canapa sativa munita di regolare cartellino ed iscritta negli appositi registri comunitari che, ad oggi, conta oltre 60 diverse varietà .
Tale considerazione, se per gli addetti del settore era già cosa nota, in realtà è di fondamentale importanza sul piano giuridico, dal momento che la legge n. 242/2016, così come il modificato art. 26 D.P.R. n. 309/1990 (T.U. Stupefacenti) ed ancor prima la Convenzione di New York sugli Stupefacenti del 1961, hanno in maniera inequivocabile escluso la canapa industriale dal novero delle sostanza stupefacenti e dall’applicazione della relativa disciplina.
Da ciò discende che tutte le varietà di canapa industriale iscritte nei dovuti registri e munite di regolare certificazione godono della tutela normativa offerta dalla Legge n.242/2016.
In realtà tale legge non si limita a tutelare la canapa industriale, bensì, persegue la finalità di promuovere, sostenere ed incentivare la filiera produttiva.
In particolare, è ragionevole affermare come la legge n. 242/2016 presenti alcuni punti fermi della materia che possono essere così riassunti:
- Definizione di canapa industriale e liceità della coltivazione;
- Promozione della filiera;
- Tutela ed obblighi del coltivatore;
- Sistema dei controlli;
- Tutela del made in Italy.
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a) Definizione di canapa industriale e liceità della coltivazione.
Come esposto nella premessa, tutte le oltre 60 varietà di canapa industriale con valori di principio attivo inferiori allo 0,2%, iscritte nei dovuti registri e munite di regolare certificazione godono della tutela normativa da parte della Legge n. 242/2016.
Tali varietà possono pertanto essere coltivate lecitamente e destinate alle applicazioni previste dagli artt. 1 e 2 della legge, come meglio esposto infra al successivo punto b).
Al contrario, una varietà non iscritta nei predetti registri non potrà godere della tutela dettata dalla L. n. 242/2016 indipendentemente dal fatto che ne possa rispettare o meno il limite dello 0,2% di principio attivo, dal momento che tali fattispecie esulano dalla definizione di canapa industriale.
La rilevanza di tali limiti nelle varietà non certificate potrà, caso mai, risultare rilevante in sede penale ove, stanti i bassi livelli THC ivi presenti e non determinando effetti psicotropi nell’assuntore, potranno generare tutta una serie di scriminanti ed esclusioni. Ma tali ipotesi esulano completamente dalla disciplina e dalla ratio della legge in commento e potrà senz’altro rappresentare argomento di discussione nelle opportuni sedi competenti, ma certamente non nell’ambito della L. n. 242/2016.
La canapa industriale è quindi chiaramente definita dalla vigente normativa così come è lecita la coltivazione.
Con riferimento specifico ai “cartellini” che accompagnano le sementi certificate, da più parti si è discusso di questioni pratiche stanti gli attuali formati in cui vengono commercializzati (25 kg).
Sul punto appare opportuno sottolineare come per molto tempo la canapa sia stata considerata una coltura essenzialmente da fibra o da seme con la conseguenza che le quantità di seme necessarie per ogni ettaro erano indicate tra i 25 ed i 50 kg.
Le evoluzioni del settore degli ultimi anni hanno invece fatto emergere destinazioni differenti che necessitano di quantitativi di sementi necessari per ettaro di gran lunga inferiori ai 25 kg con la conseguenza che gli operatori impegnati in tali coltivazioni si sono trovati a gestire quantitativi in esubero.
Da tale esigenza pratica sono sorte disquisizioni circa l’utilizzo delle sementi in eccesso ossia circa la liceità di utilizzare il medesimo sacco in più semine o di dividere il quantitativo di un sacco tra soggetti diversi.
Orbene la questione appare di ordine meramente pratico, dal momento che, a parere dello scrivente, non risultano sussistere norme o principi ostativi.
In particolare nulla quaestio circa la possibilità di usare il quantitativo del medesimo sacco per più semine da parte del medesimo agricoltore. Appare evidente che non può essere imposto all’agricoltore di gettare via il seme non utilizzato e non riutilizzarlo l’anno successivo, visto che lo ha regolarmente pagato. Caso mai, come per tutte le colture, il seme riutilizzato l’anno successivo presenterà livelli di germinabilità inferiori.
Anche in merito alla questione circa la possibilità di dividere il medesimo sacco tra più soggetti non risultano norme contrarie dal momento che la legge parla di obbligo di conservazione dei “cartellini delle semente acquistata” e non di originali dei medesimi.
Pertanto appare plausibile ritenere che gli agricoltori possano dividere le sementi presenti in uno stesso sacco purché si premurino di conservare fattura di acquisto e copia del cartellino, magari specificando quanto sopra nella comunicazione di semina da presentare alla Pubblica Autorità.
Addirittura sulla questione si è espresso in senso “non ostativo” il MIPAAF per le aree montane.
Sul punto è possibile confrontare il parere del MIPAAF prot. 7278 del 2.04.2015 secondo cui: “Poiché le dimensioni degli appezzamenti in aree montane sono ampiamente inferiori alle superfici investibili con un sacco di semente di canapa (…) non trova motivi ostativi nella normativa sementiera di riferimento, e pertanto, si reputa utilizzabile la procedura di acquisto e di divisione dei sacchi di semente di canapa”.
Francamente ancorare tale possibilità alla sussistenza dell’agricoltore in area montana o meno appare assolutamente discriminatoria e, pertanto, poiché non sussistono motivi ostativi nella normativa sementiera, sembrerebbe possibile sostenere la liceità della divisione dei sacchi.
Sul punto occorre altresì sottolineare come il MIPAAF abbia sostenuto una interpretazione, sulla scorta di una circolare di Assocanapa, ipotizzando un sistema piuttosto complesso ed articolato di autenticazioni del cartellino e di coordinamento con le Forze dell’Ordine.
Su istanza del dott. Matteo Calzuola, il MIPAAF ha rilevato che “una fotocopia di un cartellino non è mai una prova certa, nel senso che l’azienda che acquista il seme potrebbe utilizzare quel cartellino per coltivare ben altre varietà di “canapa”.Per questo motivo abbiamo ritenuto valida una procedura proposta da una ditta che prevede alcuni passaggi a tutela dell’azienda acquirente. Fermo restando però che se lautorità di controllo (che non è il Mipaaf) non è d’accordo con tale procedura potrebbero sorgere problemi, in quanto si tratta di una soluzione interpretativa e non una procedura a norma di legge. È bene pertanto accordarsi prima con le forze dell’ordine preposte al controllo della zona, in modo da evitare problemi successivamente (magari facendosi rilasciare una nota scritta di assenso alla procedura proposta)”.
A parere dello scrivente tale impostazione non appare condivisibile dal momento che lo scopo della normativa è quella di garantire la tracciabilità delle coltivazioni, alleggerendo gli adempimenti per l’agricoltore, e non certamente quello di tutelare gli interessi dei produttori delle sementi, i quali fanno parte di una filiera produttiva al pari di tutti gli altri soggetti. Tale sistema inoltre, a parere dello scrivente, finisce soltanto per ingenerare ancora più confusione ed equivoci intorno alla canapa industriale anziché contribuire a normalizzare e standardizzare il settore, peraltro gravando le Forze dell’Ordine di ulteriori e non necessari compiti di controllo e verifica distogliendoli da attività ben più importanti.
Al contrario, al fine di snellire la procedura e garantire in ogni caso la tracciabilità delle sementi, potrebbe essere consigliabile che la divisione del sacco sia accompagnato da una dichiarazione sostitutiva di atto notorio dei soggetti interessati in modo che la copia del cartellino sia accompagnata da una “autocertificazione” che contiene in se stessa una chiara assunzione di responsabilità circa la veridicità di quanto affermato ai sensi del DPR n. 445/2000.
Occorre sottolineare come la problematica in questione e le conseguenti discussioni traggono origine dal solo fatto che i produttori di sementi vendono sacchi in formati da 25 kg e non in formati inferiori imponendo obblighi ed adempimenti a carico degli agricoltori.
In realtà, anche in questo caso, la soluzione della querelle è estremamente semplice e non necessita di ulteriori norme: anziché prevedere astrusi sistemi di autenticazione e di controlli, è preferibile che i produttori di sementi si aggiornino sulle evoluzioni del settore e forniscano sacchi di sementi con regolare cartellino in formati diversi ed inferiori ai 25 kg.
Infine appare opportuno analizzare la questione inerente la possibilità per i privati di coltivare canapa industriale.
Come più volte esposto, la L. n. 242/2016 favorisce e promuove la filiera della canapa industriale che, per sua stessa definizione, è destinata a finalità produttive ed industriali che mal si conciliano con l’ambito privato, il quale, ictu oculi, non ha la possibilità di commercializzare la canapa prodotta né persegue finalità produttive né tantomeno industriali.
Al tempo stesso occorre rilevare come la medesima legge non limiti la liceità della coltivazione della canapa alle sole aziende agricole. Anzi, già la Convenzione di New York del 1961 parlava di “orticoltura”, termine che contiene in se stesso una dimensione personale privata e di autoproduzione.
Occorre pertanto operare un bilanciamento di interessi tra finalità industriali e diritto alla autoproduzione, come per qualunque altra pianta o ortaggio.
Pertanto appare plausibile ritenere che il privato possa coltivare canapa industriale purché la medesima non venga commercializzata né ceduta a terzi, bensì sia destinata alla autoproduzione. Tale interpretazione potrebbe conciliare il dettato normativo con le esigenze di coloro che vorrebbero coltivare canapa nei terreni di propria disponibilità per autoproduzione, ad esempio per finalità alimentari, cosmetiche, energetiche ecc. senza essere interessati alla commercializzazione dei prodotti ottenuti.
In ogni caso, è auspicabile che la crescita del settore e della diffusione delle coltivazioni di canapa e dei suoi molteplici utilizzi contribuisca, anche a livello culturale, a contribuire a concepire la canapa come qualunque altra pianta superando così naturalmente – con il diritto vivente – quei dubbi interpretativi e soprattutto quegli equivoci che abbiamo cercato di affrontare con il presente parere.
b) Promozione della filiera
La legge stabilisce, all’art. 1, norme per la promozione ed il sostegno alla filiera produttiva della canapa industriale, ed, in particolare:
– coltivazione e trasformazione;
– incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali;
– sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale;
– produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori;
– realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.
Appare pertanto evidente come la legge abbia inteso promuovere e sostenere tutti gli aspetti sopra descritti. Promuovere una filiera, infatti, significa promuovere tutte le fasi della stessa: coltivazione, trasformazione, produzione e ricerca.
Proprio la ricerca costituisce l’elemento caratterizzante della materia (non a caso richiamata dalle lettere c) e d) dell’art. 1) dal momento che qualunque filiera produttiva non può prescindere dalla ricerca volta ad ottimizzare le produzioni ed evitare gli sprechi.
Già l’art. 1 prevede e favorisce una visione dinamica ed evolutiva del settore che, proprio grazie alla ricerca, non può e non deve limitarsi agli utilizzi di quanto sinora esistente.
Ricerca, sviluppo ed innovazione sono infatti le parole chiavi di quell’economia sostenibile incentivata e promossa a livello europeo e mondiale e richiamata dalla lett. c) dell’articolo in commento. Al successivo articolo 2 la medesima legge sancisce la liceità della canapa ad uso industriale (ossia delle varietà di cannabis sativa L. iscritte nel catalogo delle piante varietali con valori di principio attivo THC inferiori allo 0,2%) dalla quale è possibile ottenere, tra l’altro, “semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori”.
Da tali norme discendono evidentemente alcune considerazioni di principio:
— dalla canapa così coltivata, la L. n. 242/2016 promuove il “consumo finale di semilavorati di canapa” e lo “sviluppo di filiere territoriali” in “diversi settori”;
— la legge consente (art. 2) le “forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori” prevedendo pertanto un elenco aperto e non tassativo dei settori di destinazione finale dei prodotti realizzati a base di canapa industriale. Da tali presupposti emerge chiaramente come lo scopo della L. n. 242/2016 sia quella di sostenere il ripristino della filiera produttiva della canapa industriale incentivando la produzione agricola, la trasformazione e la “fornitura” alle industrie e attività artigianali.
La stessa ratio della legge è infatti quella di incentivare e sostenere la filiera produttiva della canapa industriale che, come noto, per sua stessa natura, è suscettibile di molteplici impieghi in svariati settori e, pertanto, la legge deve riferirsi a tutti i soggetti facenti parte di tale filiera: coltivatori, trasformatori e rivenditori ed è pertanto destinata non solo alle aziende agricole, ma anche a tutti quei soggetti che svolgono attività di trasformazione delle materia prima, nonché a tutti gli intermediari commerciali che si occupano della distribuzione dei prodotti della filiera.
Tali attività produttive rientrano senz’altro nella nozione di libera iniziativa economica privata prevista e tutelata dall’art. 41 Costituzione e disciplinata dal Codice Civile agli artt. 2082 e seguenti.
Pertanto, laddove le coltivazioni di origine della canapa impiegata per gli usi di cui sopra rispondono ai limiti ed alle prescrizioni di legge, i prodotti (tecnici, alimentari e comunque essi siano nei “diversi settori”) rispettano la disciplina di settore e sono sotto i limiti di principio attivo previsti, tali utilizzi della canapa industriale sono da considerarsi conformi alla normativa vigente.
Viceversa si realizzerebbe una indebita compressione del diritto – costituzionalmente garantito – di libera iniziativa economica privata.
Dalla lettura combinata del disposto degli artt. 1 e 2 è plausibile dedurre quindi come la legge non preveda elencazioni tassative, ma, al contrario, sia una legge di promozione fondata sulla ricerca e sull’iniziativa economica degli operatori del settore.
In questo senso la legge ha voluto porre la promozione della filiera come un punto fermo del settore che, pertanto, non può essere concepito se non in senso dinamico ed evolutivo.
Appare pertanto manifesto come la legge costituisca, circostanza peraltro sottolineata dal MIPAAF stesso, un importante punto di partenza per lo sviluppo del settore. Sviluppo che – ovviamente – non potrà essere incontrollato, ma, al contrario dovrà rispettare le normative vigenti nei singoli settori della filiera.
c) Tutela ed obblighi del coltivatore.
La legge ha chiarito altresì gli obblighi del coltivatore con lo spirito di fornire la massima tutela possibile per le aziende agricole.
Il coltivatore, ai sensi dell’art. 3, ha infatti l’obbligo di “della conservazione dei cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a dodici mesi. Ha altresì l’obbligo di conservare le fatture di acquisto della semente per il periodo previsto dalla normativa vigente”.
Sul punto occorre comunque sottolineare che, nonostante la legge escluda “autorizzazioni preventive”, il Ministero dell’Interno si è già espresso evidenziando che formalmente l’entrata in vigore della L. n. 242/2016 NON ha determinato il venir meno degli obblighi imposti al coltivatore dalla circolare MIPAAF n. 5/2009 circa la necessità della presentazione della dichiarazione di semina presso i locali posti di Pubblica Sicurezza. Effettivamente tale adempimento non rappresenta infatti una autorizzazione preventiva, bensì una mera comunicazione agli organi competenti che, per inciso, sono poi gli stessi deputati ai controlli sulle coltivazioni.
Il Ministero ha comunque già chiarito l’intento dello Stato Italiano di ridurre al minimo gli oneri a carico del coltivatore, limitati alla cura del proprio fascicolo aziendale e coadiuvato dalla presenza del portale SIAN.
In ogni caso è senz’altro auspicabile un coordinamento tra il portale SIAN e le Forze dell’ordine al fine di snellire il procedimento ed evitare equivoci e disagi e soprattutto quelle differenze applicative che troppe volte si sono verificate su base locale.
In ogni caso, a parere dello scrivente, l’onere di comunicazione di semina rappresenta un’opportunità per il settore in quanto consente di mantenere quel clima di trasparenza e collaborazione che negli ultimi anni ha consentito al settore di svilupparsi sia sul piano qualitativo che quantitativo.
Poiché i controlli sono demandati ai Carabinieri (che hanno assorbito la Guardia Forestale), in via interpretativa, appare plausibile ritenere che la comunicazione di semina venga eseguita presso la locale stazione dei Carabinieri, i quali saranno informati della presenza della coltivazione e potranno così organizzare al meglio i controlli sulla stessa.
Al contempo la legge prevede un chiaro sistema di tutela per il coltivatore che abbia rispettato le previsioni di cui all’art. 3 ed abbia curato la regolare tenuta del proprio fascicolo aziendale.
L’art. 4, comma 5, costituisce, infatti, una novità ed un incentivo indiretto per lo sviluppo della canapicoltura, dal momento che finalmente chiarisce, a livello di legge dello stato, le conseguenze per il coltivatore nel caso in cui i livelli di THC rilevati risultino superiori ai limiti di legge dello 0,2%.
La conseguenza è chiara: NESSUNA responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di legge, ovvero ha adempiuto agli obblighi di cui all’art. 3 se il limite rilevato è comunque inferiore allo 0,6%, soglia che, stante la tipologia di sementi in questione, pone senz’altro al riparo i coltivatori dai rischi e dai timori connessi allo sforamento del contenuto di THC nelle coltivazioni.
Peraltro il comma 5 precisa che i valori di THC rilevati debbono sempre riferirsi non a prelievi isolati, bensì a valori medi “tra campioni di piante, prelevati, conservati, preparati e analizzati secondo il metodo prescritto dalla vigente normativa dell’Unione europea e nazionale di recepimento”.
Il comma 7 limita infatti la facoltà di sequestro e/o distruzione delle coltivazioni di canapa soltanto su ordine dell’Autorità Giudiziaria e soltanto ad esito di comprovati controlli, eseguiti secondo le prescrizioni del terzo comma, che abbiano attestato il superamento della soglia dello 0,6%, fermo restando l’esclusione di responsabilità per l’agricoltore anche in tale ipotesi.
Appare opportuno comunque sottolineare come la soglia dello 0,6% non riguarda le sementi né i prodotti finali, ma è un limite che riguarda “il campo” e rappresenta la soglia oltre la quale può essere disposto il sequestro delle coltivazioni.
Dal combinato disposto dei commi 5 e 7 si evince comunque che, in ogni caso (quindi anche qualora ad esito dei controlli i limiti siano superiori allo 0,6%) alcuna responsabilità potrà essere imputata all’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di legge circa l’acquisto e la conservazione dei cartellini delle sementi e delle fatture.
Appare pertanto evidente come la legge offra una tutela piena per l’agricoltore e come gli obblighi siano sostanzialmente ridotti alla corretta tenuta del fascicolo aziendale (come per ogni altra coltura).
d) Il sistema dei controlli.
Significativo anche il riferimento alla vigente normativa europea circa le modalità di esecuzione dei controlli “nel rispetto delle disposizioni di cui all’articolo 1, commi 1 e 2, del Decreto Legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 agosto 2014, n. 116”, come peraltro avveniva già nella prassi da parte dei soggetti che sinora erano territorialmente deputati all’esecuzione di tali controlli.
Il legislatore si è altresì preoccupato di salvaguardare il diritto al contraddittorio del coltivatore, il quale, qualora si rendessero necessari effettuare campionamenti con prelievi dalla coltura, avranno il diritto di essere presenti personalmente al prelievo e di ricevere copia del campione prelevato per eventuali controanalisi.
I prelievi pertanto dovranno essere eseguiti, in via ordinaria, soltanto dai Carabinieri e secondo i criteri previsti dai Regolamenti Comunitari ed in presenza del coltivatore il quale ha diritto non solo di assistere, ma anche di ricevere copia del campione prelevato. I Carabinieri non potranno comunque ed in nessun caso procedere al sequestro o alla distruzione delle coltivazioni senza il mandato dell’Autorità Giudiziaria che, ipso facto, potrà essere disposto solo ad esito dei controlli sui limiti di THC che dovranno risultare superiori allo 0,6%.
La previsione del contraddittorio appare senz’altro una corretta previsione nel rispetto dei principi dello Stato di diritto che mette ulteriormente al riparo l’agricoltore da interpretazioni arbitrarie.
Ciò che appare auspicabile è che il personale adibito all’esecuzione dei controlli sia correttamente formato ed informato sulla materia onde evitare difformità interpretative ed applicative che rischiano soltanto di generare timori ed incertezza nel settore con conseguente freno per gli investimenti e la crescita economica.
e) Tutela del Made in Italy.
La legge n. 242/2016 si è preoccupata di prevedere, seppure in via di principio, la tutela del Made in Italy a vantaggio del consumatore.
Sul punto è auspicabile che siano gli stessi operatori del settore con le rispettive associazioni di categoria (Federcanapa, Coldiretti, Confagricoltura) ad attivarsi per promuovere disciplinari di produzione per le singole destinazioni della canapa industriale in modo da coadiuvare e supportare l’attività delle Istituzioni, ricalcando sostanzialmente il percorso seguito nel recente passato dalle coltivazioni biologiche, con la cui normativa inevitabilmente la materia dovrà integrarsi per le coltivazioni BIO.
Lo scopo potrebbe essere quello di adottare un vero e proprio marchio di qualità rilasciato agli operatori “virtuosi” sulla scorta dei sistemi delle DOP che identificano tradizionalmente il made in Italy.
La lotta alla contraffazione ed al cosiddetto Italian sounding sono tematiche con le quali anche il settore della canapa deve misurarsi a tutela della qualità italiana dei prodotti e del consumatore.
In sostanza sono auspicabili norme volontarie che assicurino la tracciabilità e la qualità delle coltivazioni e dei prodotti a tutela e garanzia dei consumatori e del made in Italy in modo che questo possa emergere ed affermarsi sul mercato europeo e mondiale.
Tali attività volontarie potranno senz’altro aiutare le Autorità competenti ad adottare normative di dettaglio rispettose delle esigenze del settore con il fine comune di alzare gli standards produttivi e qualitativi delle coltivazioni e dei prodotti ottenuti.
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- Le cosiddette “zone grigie” della L. n. 242/2016
Analizzati gli elementi chiarificatori della legge, occorre soffermarci su alcuni aspetti che, allo stato, sono ancora considerate una sorta di “zone grigie” che probabilmente necessiteranno di una ulteriore disciplina di dettaglio, peraltro già ampiamente annunciata dai Ministeri competenti attraverso tavoli tecnici, tavoli di filiera e regolamenti ministeriali ed interministeriali.
Fatto sta che tali settori, soprattutto in una materia dinamica fondata sulla ricerca, rischiano di muoversi in una sorta di vuoto normativo che, al momento, deve essere colmato su base interpretativa ed analogica.
A parere dello scrivente è opportuno che tali interpretazioni si fondino su presupposti obiettivi in conformità con la ratio della L. n. 242/2016 in ogni caso sempre riconducibile alla logica ed al buon senso in modo da ponderare la legalità da una parte e la libera iniziativa economica dall’altra.
Sulla base delle evoluzioni del settore che si sono verificate ed affermate dopo l’entrata in vigore della legge, appare opportuno soffermarci su tre aspetti meritevoli di grande attenzione:
- Le coltivazioni destinate al florovivaismo;
- Le estrazioni;
- Le infiorescenze;